lunedì 31 agosto 2009

In costruzione un telescopio da 1×1 km per ascoltare gli extraterrestri

Pubblicato da Universum Agosto 31, 2009

immagineAustralia e Nuova Zelanda si fanno avanti per realizzare sul proprio suolo SKA, Square Kilometer Array, un radiotelescopio da un chilometro quadrato composto da 5000 antenne paraboliche dal diametro di 12 metri ciascuna. Da parte neozelandese ne ha dato ufficialmente l’annuncio a fine agosto il ministro per lo sviluppo economico Gerry Brownlee. Sarebbe il più grande strumento scientifico che abbia mai sondato il cosmo nelle radioonde, un progetto di “big science” che richiede investimenti per 3,1 miliardi di dollari. Siamo nell’ordine di grandezza dell’acceleratore di protoni LHC costruito al Cern di Ginevra per la fisica subnucleare o del Progetto Genoma che nel 2001 ha portato a decifrare l’intera sequenza del DNA umano.

Le ricerche possibili con SKA vanno dalla cosmologia (origine ed evoluzione dell’universo) allo studio di oggetti lontani come galassie attive e pulsar, fino all’ascolto di segnali radio cosmici intelligenti e allo studio dei cambiamenti climatici sulla Terra. Altro candidato a ospitare Ska è il Sud Africa, mentre la Cina e il Brasile sembrano ormai tagliati fuori. Entro il 2012 un comitato di scienziati dovrà decidere qual è la scelta migliore. La costruzione dovrebbe essere completata nel 2020. Una parabola prototipo dal costo di 2 milioni di dollari è già stata costruita e altre 39 sono in via di realizzazione (foto).

La notizia arriva al momento giusto per celebrare il cinquantenario dell’atto di nascita della ricerca di segnali radio intelligenti provenienti dallo spazio: il 19 settembre del 1959 compariva su “Nature” un breve articolo dei fisici Giuseppe Cocconi e Philip Morrison nel quale si suggerivano le frequenze più adatte all’ascolto, quelle corrispondenti alle lunghezze d’onda tra 18 e 21 centimetri. Su queste frequenze emettono l’ossidrile e l’idrogeno neutro, cioè un “pezzo” della molecola dell’acqua e l’elemento più semplice e abbondante dell’universo. Una civiltà che voglia comunicare con culture aliene avrebbe buoni motivi “logici” per sceglierle. L’articolo di Cocconi e Morrison, intitolato “Searching for interstellar Communications”, si concludeva con una frase che ha la forza degli argomenti di Monsieur de La Palisse: “La probabilità di successo è difficile da valutare; tuttavia, se non iniziamo la ricerca, le probabilità di successo sono sicuramente nulle”.

La comunità degli scienziati interessati al programma SETI, Search for Extra Terrestrial Intelligence, da sempre guarda con forte cupidigia al progetto del super-orecchio SKA. Pur essendo evidente che questo gigantesco radiotelescopio cinquanta volte più sensibile di qualsiasi altro strumento analogo non potrà dedicarsi a tempo pieno alla ricerca di eventuali segnali cosmici artificiali, è altrettanto chiaro che saranno molto importanti le ricadute collaterali in ambito SETI dell’uso di SKA.

Chissà che cosa direbbe di SKA Enrico Fermi, protagonista del primo episodio di autentica big science con il Progetto Manhattan per la costruzione della bomba atomica.

Viene in mente Fermi perché il suo nome è inevitabile ogni volta che si parla della possibile esistenza di esseri extraterrestri. A questo argomento il fisico italiano, premio Nobel per le sue ricerche sui neutroni lenti, ha dedicato per la verità solo qualche minuto della sua vita di scienziato e una battuta asciutta, degna di Buster Keaton: “Dove sono?”. Avvenne alla mensa del Laboratorio di Los Alamos nell’estate del 1950 ed era presente Edward Teller, che sarebbe poco dopo diventato il padre della Bomba H, la bomba all’idrogeno. Da allora si parla della faccenda come del “paradosso di Fermi”.

La domanda “Dove sono?”, nella sua allusiva brevità, sottintende alcune cose. Intanto, è ellittica del soggetto: che è “gli extraterrestri”. Poi presuppone che si sappia che nonostante tutte le ricerche fatte finora nessun indizio di alieni è finora emerso. Inoltre, dal punto di vista del metodo scientifico, la domanda di Fermi è anche un invito a ragionare su cose che si possono sperimentare, su fatti concreti. E a mettere in pratica la regola aurea del “rasoio di Occam”: i fenomeni che hanno spiegazioni semplici, come certe apparizioni di luci in cielo, non devono suscitare interpretazioni complicate e improbabili come astronavi aliene, omini verdi che ci spiano e così via.

Tutto giusto. Il “paradosso di Fermi” rimane una saggia messa in guardia da inutili e fuorvianti voli della fantasia. E anche vero, però, che per questo paradosso si sono individuate svariate soluzioni. Il fisico Stephen Webb ne elenca ben cinquanta nel libro tradotto in italiano per l’editore Sironi e intitolato “Se l’universo brulica di alieni… dove sono tutti quanti?”, che sarebbe poi la frase pronunciata da Fermi alla mensa di Los Alamos ma in una versione meno ellittica.

Una cosa è certa. Nel 1950 vere ricerche di alieni non si erano ancora mai tentate. Il primo avvistamento moderno di Ufo è del 24 giugno 1947. A partire dal 1960, dieci anni dopo la battuta di Fermi, molte ricerche di E.T. sono state avviate e alcune sono in corso, altre in preparazione, ma senza alcun risultato. Questo “silenzio di E.T.” però non vuole dire granché. Le stelle e le frequenze esplorate sono finora poca cosa rispetto all’immensità dell’universo. Qualcuno ha detto che è come se, per verificare se nell’oceano esistono pesci, avessimo finora esaminato un singolo bicchiere di acqua marina.

Frank Drake, 79 anni, pioniere e profeta dei programmi SETI, ha escogitato una celebre formula per calcolare la probabilità che esistano altri pianeti che, come la Terra, ospitano una civiltà tecnologicamente avanzata. Il risultato di questa equazione – che tale non è se si dà alla parola il corretto senso matematico – oscilla tra una e un milione per le civiltà della nostra galassia. Tanta incertezza – che priva la formula di ogni significato scientifico – dipende dal fatto che un parametro dell’equazione è altamente incerto: quello che riguarda la durata di una civiltà tecnologica a partire da quando in essa si giunge alla scoperta di un’arma così potente da essere in grado di distruggere la civiltà stessa.

Nel nostro caso questa scoperta coincide con quella della bomba atomica. Dovremmo riflettere sul fatto che la scettica domanda “Dove sono?” venne proprio dallo scienziato che più di ogni altro aveva contribuito a quella scoperta, e che a dialogare con lui a Los Alamos, patria della bomba atomica, ci fosse Teller, ideatore di un ordigno ancora più distruttivo.

Con tutto ciò, il tema della vita extraterrestre è più attuale che mai. Nel 1982 la International Astronomical Union ha costituito la Commissione 51 per lo studio dell’Astrobiologia, disciplina fino ad allora indicata come esobiologia. E mentre allora conoscevamo un solo sistema planetario – il nostro – oggi si conoscono quasi quattrocento pianeti intorno ad altre stelle. In altre parole un altro dei parametri incerti dell’equazione di Drake è stato chiarito con esito largamente favorevole all’esistenza di vita anche lontano dalla Terra.

Sommessamente, farei notare che il tempo gioca a favore degli alieni e contro Fermi. Dopo i terribili bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, sono passati 64 anni senza guerre nucleari. Sessantaquattro anni sono un batter di ciglia su scala cosmica, ma incominciamo ad avere qualche speranza che una civiltà tecnologica possa essere abbastanza saggia da non arrivare all’autodistruzione in tempi brevissimi. Ora auguriamoci che personaggi come Ahmadinejad e altri non abbiano intenzione di rovinare le cose. Abbiamo bisogno che quel parametro così incerto nella formula di Drake, la durata di una civiltà tecnologica, si precisi al rialzo, arrivando possibilmente a milioni di anni, cioè il tempo-scala della vita di una specie.

Noi tifiamo per E.T., si sarà capito, non del tutto disinteressatamente.

Fonte: http://www.lastampa.it/

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